Riflessioni di CambiamentoARRIVEDERCI DOTTOR BASAGLIA – La storia di Franco, tra sofferenza psichica individuale e sistemi da curare

2 Settembre 2021
Riflessioni di Cambiamento
n. 9

 

ARRIVEDERCI DOTTOR BASAGLIA
La storia di Franco, tra sofferenza psichica individuale e sistemi da curare

di Valter Tanghetti

 

 

Conobbi Franco alcuni anni fa, ad una serata di beneficienza organizzata da un’associazione locale di volontariato che affianca e sostiene persone con fragilità psichica. La sua testimonianza, offerta
ai numerosi filantropi intervenuti, iniziava così: “Sono malato da quando avevo 17 anni…”.
Collaboravo da poche settimane con questa associazione. Avevo accettato la proposta della carismatica presidente, che mi aveva parlato del loro “approccio basaliano” alla malattia mentale.
Mi venne chiesto di affiancare Franco, con l’obiettivo di fornirgli uno spazio di ascolto psicologico ed elaborare con lui un possibile progetto di reinserimento sociale e lavorativo, che l’associazione avrebbe poi sostenuto.

Franco, che al tempo aveva una cinquantina d’anni, viveva con la madre anziana e malata. Il padre, al quale era molto affezionato, era deceduto da diversi anni. Attorno a lui e alla madre ruotavano la sorella, la zia e la cugina, tutte molto solerti ed indaffarate nella cura dei due malati.
Nonostante la sua intelligenza, la sua sorprendente cultura storica, la sua ricchezza morale, da diversi anni sembrava aver rinunciato ad una vita sociale e ad un lavoro, in particolare da quando il nucleo per l’inserimento lavorativo psichiatrico gli aveva letteralmente registrato, cronometrato e misurato la sua “produttività” in un’azienda locale selezionata dal servizio, valutandola come insufficiente. Al tempo, questo suo racconto mi sembrò inverosimile…
Nell’associazione ci era arrivato in cerca di una nuova rete di relazioni, dopo alcune forti delusioni in gruppi e realtà nelle quali si era sentito solo parzialmente accolto. Franco raccontava quelle esperienze passate con dolore, attribuendo la “colpa” di quei “fallimenti” alla sua incostanza e alla malattia. Grazie alle sua disponibilità e alle sue capacità relazionali, si era invece fatto apprezzare nella nuova associazione, a tal punto che gli era stato “promesso” il sostegno per la ricerca di un lavoro e di una progressiva autonomia abitativa.

Durante i nostri incontri, emerse fin da subito la sua “identità di malato”. La malattia, che in realtà aveva una diagnosi lontana nel tempo che Franco stesso aveva scordato, sembrava dare senso non tanto alla sofferenza psichica (attualmente stava bene, assumeva regolarmente una terapia farmacologica, da anni non aveva “scompensi” e non aveva subito ricoveri) quanto piuttosto alla quotidianità e alla sua vita relazionale: malato lo era per il CPS che lo aveva in carico, dal quale si recava per rinnovare la terapia farmacologica che in realtà gli veniva prescritta da uno psichiatra privato di fiducia; malato lo era per la sua famiglia, che non lo riteneva in grado di reggere allo stress della vita sociale e lavorativa e che gli suggeriva di “accontentarsi” della sua pensione di invalidità; malato lo era per l’associazione di volontariato che lo seguiva, che però da tempo gli parlava di un piccolo impiego come custode della sede e, presto, di un inserimento lavorativo per invalidi psichici. Malato lo era, forse, anche per se stesso: così gli era sempre stato detto, così lui si presentava, così cercava di dare senso alla sua fragilità e alla paura di affrontare il mondo.

E per me? Cosa ne sappiamo in fondo, anche noi psicologi, della malattia mentale?

Avevo l’impressione che i diversi sistemi di cui Franco faceva parte contribuissero a mantenerlo in una posizione di malato, alimentando di fatto la sua sofferenza esistenziale. Sentivo il suo desiderio e al tempo stesso la sua paura di provare ad uscire da questa ragnatela nella quale era stato e si era lui stesso collocato.
Consapevole, ma forse non fino in fondo, del rischio a cui andavamo incontro, decisi di non allinearmi al coro. Gli restituii che il suo “ruolo di malato”, che negli anni aveva fatto proprio e che tutta la “compagnia” gli restituiva e sosteneva, poteva forse lasciare spazio anche ad altre parti più “sane”, che probabilmente lui desiderava ma che sembrava intimorito all’idea di mettere in scena.
Franco accolse questa reinterpretazione con un progressivo senso di liberazione. A partire dal riconoscimento dei suoi bisogni e dalla valorizzazione dei suoi desideri, condividemmo così un progetto psico-sociale a medio-lungo termine che aveva come focus la costruzione di nuove relazioni significative appaganti e la progressiva ricerca di una attività lavorativa.

Le reazioni dei sistemi nei quali Franco era inserito non tardarono a farsi sentire.
Lo psichiatra del CPS, stanco di vederlo presentarsi solo per confermare la terapia e la ricetta per i farmaci condivise con colleghi esterni, gli disse seccato che doveva scegliere da chi farsi seguire.
La famiglia si oppose apertamente all’ipotesi di un inserimento lavorativo, per timore che potesse perdere il diritto alla pensione. Anzi, viste le gravi condizioni di salute della madre, la sorella spingeva per un “aggravamento” della sua invalidità, al fine di ottenere, un domani, anche la pensione di reversibilità.
L’associazione, dopo mesi di promesse e snervante attesa per Franco, ritenne troppo prematuro il progetto e mi fece capire di essere stato un irresponsabile ad illudere una persona malata come Franco che, a detta loro, non avrebbe retto un impegno lavorativo e sociale costante. Fallendo, probabilmente, sarebbe ricaduto nella depressione.

Decisi di porre fine alla mia collaborazione con l’associazione, non prima di essermi assicurato che Franco potesse continuare ad essere seguito da loro. Fu lui però a stupire tutti, solo poche settimane dopo: non senza timori e sensi di colpa, decise di chiudere il suo rapporto sia con il CPS che con l’associazione e, resistendo alle pressioni della famiglia, di puntare sul progetto che avevamo costruito insieme.
Con il mio incoraggiamento e sostegno, si iscrisse e frequentò con successo due corsi di cucina, cominciò a frequentare regolarmente alcuni amici conosciuti durante i corsi e ad approfondire i suoi interessi culturali. Infine, appoggiandosi ai servizi sociali del proprio comune e ad una agenzia territoriale per il lavoro, portò a termine un tirocinio lavorativo, durato complessivamente più di un anno, in due aziende gestite da cooperative sociali, finalizzato ad un possibile inserimento
lavorativo…

Ed eccoci ad oggi, un’afosa mattina di inizio estate. Sono trascorsi sette anni da quella testimonianza in cui Franco esordiva definendosi pubblicamente “malato”. L’atmosfera è di grande attesa. Ha terminato positivamente il suo lungo tirocinio lavorativo. È fiducioso, si aspetta una proposta di assunzione.

Per le normative anti-covid, veniamo accolti nella sala consigliare del comune. Oltre all’assistente sociale comunale che ha finanziato il percorso, alla responsabile e all’operatrice del servizio di inserimento lavorativo che lo hanno affiancato negli ultimi mesi, ci sono anch’io, invitato all’incontro su richiesta di Franco.
Sorrisi e complimenti: “Non un’assenza. Non un richiamo. Sempre puntuale. Disponibile e corretto verso responsabili e colleghi… La produttività, però, raggiunge solo il 40/50%, troppo poco per una assunzione… Quello che possiamo offrirle è un rinnovo di altri tre mesi del tirocinio lavorativo, l’ultimo… Ci dispiace…”.
Mi sento congelato. Tutti i dubbi, umani e professionali, concentrati in un istante, come in un buco nero. Non ho il coraggio di incrociare lo sguardo di Franco. Lui risponde solo: “Ho capito”. Rimaniamo lì, in quell’amara sospensione che sembra non terminare mai. I saluti finali hanno, per me, il sapore della liberazione.
Esco con Franco. Ora siamo solo noi due. Non so che dire. È lui che, guardandomi, prende la parola: “Non preoccuparti, Valter. Continuerò a lottare”.

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