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4 Novembre 2022

TESEO NEL LABIRINTO

Sistema di accoglienza e sofferenza psichica
dei rifugiati politici

di Valter Tanghetti

 

Valutare il contesto storico-politico all’interno del quale la sofferenza psichica si manifesta e riconoscere il controllo sociale sotteso alle prassi tecnico-operative dovrebbero essere compiti imprescindibili per tutti gli “operatori della cura”. Michel Foucault e Franco Basaglia, in particolare, ci hanno lasciato come preziosa eredità culturale ed esperienziale una mirabile analisi del fenomeno “malattia mentale” e dei rapporti tra sapere e potere, tra livello tecnico e livello socio- politico, che nella “cura” si intrecciano. Non è infatti sufficiente denunciare i rapporti di potere interni alle istituzioni e alle relazioni di aiuto, ma è necessario identificare il consenso diffuso sotteso a queste logiche per poter avviare un processo di modifica delle pratiche quotidiane che le alimentano.
Se queste analisi relative alla dinamiche sottese ai processi di cura sono valide, sembrano esserlo ancor di più dal momento in cui ci troviamo ad operare nel contesto di cura dei “migranti forzati” provenienti da diverse parti del mondo. I pazienti richiedenti o titolari protezione internazionale che incontriamo come psicologi e psicoterapeuti sono infatti “collocati” in un preciso “sistema di accoglienza” e non accedono “spontaneamente” ai nostri studi, ma inviati o accompagnati dagli operatori sociali dell’accoglienza. Quali sono quindi gli elementi qualificanti il qui ed ora del nostro sistema di accoglienza e di cura?

Le politiche dell’Unione Europea in materia di immigrazione sono incentrante sulla cosiddetta “Fortezza Europa”, una definizione tristemente mutuata dalla propaganda nazista durante la seconda guerra mondiale, ad indicare la chiusura ed il controllo rigido delle frontiere dello spazio Schengen a contrasto dell’immigrazione irregolare. A tale scopo, nel 2016 l’UE ha istituito una specifica agenzia della guardia di frontiera e costiera, denominata Frontex.
In largo anticipo su Frontex, dal 2002 in Italia la politica migratoria è disciplinata dalla cosiddetta Legge Bossi-Fini che vincola il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, regolando attraverso uno specifico “decreto flussi” le quote e le provenienze di cittadini non comunitari che possono entrare annualmente e soggiornare nel nostro Paese per motivi di lavoro. Questa legge, da un lato ha generato negli anni un senso progressivo di instabilità ed incertezza dovuto alle precarie condizioni lavorative nelle quali molti migranti si trovano ad operare, dall’altro ha di fatto bloccato il sistema di ingresso regolare per i cosiddetti “migranti economici”.
Se escludiamo i bilanciamenti minimi del decreto flussi e le periodiche regolarizzazioni che negli anni hanno sanato la posizione di centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori funzionali al sistema economico e sociale italiano (un esempio su tutti, i provvedimenti relativi a colf e badanti), di fatto l’unica via “forzatamente regolare” per l’ottenimento di un permesso di soggiorno è rappresentata dalla richiesta di protezione internazionale, diritto riconosciuto dall’Articolo 3 della Costituzione italiana e sancito dalla Convenzione Internazionale di Ginevra del 1951. In tal senso, proprio la Legge Bossi-Fini, nel momento in cui restringeva la possibilità di ingresso regolare nel nostro Paese, istituiva al contempo il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR).
Far confluire il flusso di migranti che arrivano alle nostre frontiere in un unico sistema di accoglienza, se da un lato consente di rispondere ad un diritto sancito internazionalmente, dall’altro permette di esercitare un maggiore controllo sociale su di un fenomeno che altrimenti verrebbe percepito dall’opinione pubblica come incontrollabile. La procedura con la quale il nostro sistema accoglie il “migrante forzato” è infatti standardizzata e tende ad uniformare in modo
alquanto rigido differenti traiettorie culturali, progettuali ed esistenziali, in coerenza con la Convenzione ed i successivi Regolamenti di Dublino (1997, 2003, 2013) che “bloccano” il migrante nel paese europeo di arrivo dove è stata fatta la richiesta di protezione. L’iter prevede: identificazione personale e raccolta delle impronte digitali, richiesta individuale di protezione internazionale, inserimento in una prima struttura di accoglienza, rilascio di un permesso di
soggiorno temporaneo, valutazione della richiesta di protezione da parte di una specifica Commissione Territoriale, riconoscimento o diniego della domanda di protezione internazionale, rilascio di un permesso di soggiorno di cinque anni (in caso di asilo politico o protezione sussidiaria) o di due anni (per i cosiddetti “casi speciali”), possibilità di ricorso in caso di diniego, inserimento nel Sistema di Accoglienza ed Integrazione (SAI, ex SPRAR e SIPROIMI), elaborazione e
realizzazione di un progetto individualizzato di autonomia, conclusione del percorso ed uscita.
Si tratta di un percorso fortemente connotato da un punto di vista burocratico-amministrativo che spesso, soprattutto nei casi di ricorso a seguito di diniego, ha la durata di diversi anni. Anche il lavoro degli operatori del SAI (“case manager”), che pure fornisce alla persona una serie di servizi finalizzati alla “ri-conquista della propria autonomia” in termini di integrazione sociale, lavorativa ed abitativa (insegnamento della lingua italiana, formazione e riqualificazione professionale, tirocini lavorativi, accompagnamento legale, tutela psico-socio-sanitaria…), assume una connotazione fortemente burocratica.

Tra le pieghe di questo sistema, si possono facilmente intravedere quelle ambivalenze nelle prassi tecniche e burocratiche che, a fronte delle ufficiali buone intenzioni di accoglienza, integrazione ed autonomia, al contrario rischiano di generare ed alimentare dipendenza, passività, impotenza, esclusione ed alienazione nei “beneficiari” del servizio. Come esempio, prendiamo due passaggi particolarmente critici dell’intero percorso di accoglienza.
Il primo riguarda la valutazione della richiesta di protezione da parte della Commissione Territoriale. Il diritto alla protezione internazionale passa attraverso la dichiarazione e la narrazione di una storia autobiografica fatta di discriminazione, violenza e pericolo subiti dal migrante forzato nel paese di origine. Il diritto si correla necessariamente ad una condizione di “vittima”, di fronte al “carnefice” rappresentato dallo Stato di provenienza, codificata in base a precisi criteri giuridici. Non c’è spazio per il riconoscimento di altre storie, di altre narrazioni, di altre motivazioni alla base della propria migrazione. Nemmeno l’eventuale passaggio violento dalla Libia è “utile” in tal senso. A questo si aggiunge che il cosiddetto “Decreto Sicurezza” del 2018, fortemente voluto dal Ministro degli Interni Salvini, ha abolito la cosiddetta Protezione Umanitaria fino ad allora prevista dall’ordinamento giuridico italiano, sostituendola con un permesso di soggiorno per “casi speciali”. Anche l’eventuale presenza e riconoscimento di una sofferenza psichica importante nella persona potrebbe quindi non essere sufficiente per l’ottenimento di un diritto.
Un secondo passaggio particolarmente critico è rappresentato dal periodo di permanenza e soprattutto dal progetto in uscita dal servizio di accoglienza. Oltre alle tempistiche e alle rigide procedure che tendono a passivizzare e rendere impotenti i rifugiati, le forme di esclusione o di precarizzazione si materializzano in altre procedure tecnico-burocratiche del nostro sistema: tempi lunghi per l’ottenimento di alcuni documenti (codice fiscale alfanumerico, residenza, carta d’identità, rinnovo del permesso di soggiorno), ritardo con cui si inizia un lavoro sufficientemente stabile (il sistema economico-produttivo ha sostituito i contratti di lavoro con tirocini lavorativi a tempo determinato spesso pagati del sistema di accoglienza), difficoltà di accesso al mercato degli affitti (anche quando si è in possesso di un regolare contratto di lavoro), criteri ed espletamento delle pratiche burocratiche per il ricongiungimento familiare. Il senso di sospensione e di attesa rendono spesso del tutto astratta la richiesta di un progetto individuale futuro.

L’incontro clinico con il paziente avviene all’interno di questo contesto. Prima di una qualsiasi valutazione transculturale, di un’analisi delle diverse fasi del processo migratorio, della narrazione
condivisa di un racconto mitico trasformativo, come psicologi e psicoterapeuti siamo chiamati quindi ad essere consapevoli delle sottili e ambivalenti dinamiche di potere e controllo presenti all’interno del sistema di accoglienza, nonché a modificarne laddove possibile le pratiche operative e di cura generatrici di malessere.

Teseo è nel labirinto. A noi la scelta se provare a fornirgli un esile filo che possa permettergli di uscirne, dopo aver coraggiosamente lottato contro il Minotauro.

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